martedì 18 ottobre 2011

IL MONDO DI ALBERTO

FRATELLI RIBELLI

Mai un “te lo avevo detto” è stato espresso con meno entusiasmo di questa volta. L’ho pronunciato tristemente a mia figlia guardando preoccupato le immagini che rai news rimandava dal centro di Roma. Nella rivolta dei cosiddetti Indignados di sabato 15 ottobre a Roma per fortuna lei non c’era, grazie al mio diniego deciso quando qualche giorno prima mi era stato chiesto il permesso. Così non sono stato costretto ad ammalarmi di paura nel vedere le cariche della polizia e la gente con la faccia insanguinata, terrorizzato dal pensiero di veder comparire la felpa di Elena sul video. Io generalmente non sono un padre interventista, non mi piace intromettermi nella vita dei miei figli e usualmente aspetto che siano loro a raccontarmi spontaneamente cosa gli capita; per giunta non godo affatto nel dover dir di no, piuttosto il contrario, se vi sono costretto mi trovo odioso. Stavolta però quando mi si è parata davanti la prospettiva di una figlia che partiva verso Roma, in treno, pur insieme al gruppo dei suoi consueti amici, ho capito che si trattava di un salto verso l’ignoto che non potevo permettere. Troppo giovani e inesperti i ragazzi, troppo pompata e a rischio la manifestazione. Intendiamoci, io sono decisamente dalla parte degli Indignados, condivido pienamente la protesta e le idee che vi sono alla base. Diciamo che (virtualmente) sono con loro a fare gli stessi picchetti e le stesse notti all’addiaccio davanti alla Banca d’Italia, con la differenza che io le seguo in ciabatte, da casa. Però il mio spirito è tra quei ragazzi, quei precari, quei nonni che fanno sentire la propria voce indignata verso il Palazzo, le banche, la finanza. Cioè i responsabili della grave e inarrestabile crisi che dalle finanze si è estesa alle produzioni e quindi, immediatamente, scaricata sui più deboli nella scala gerarchica, gli operai, o quelli ancora un gradino sotto, i precari. In fondo alla scala sociale però c’è ancora qualcuno, quelli sono i primi a saltare e sono già quasi tutti saltati, i lavoratori in nero. Con il risultato di uno slittamento verso il basso: il lavoratore in nero è a casa e il precario prende il suo posto, mentre l’operaio in regola diventa precario.
Così la tensione sociale è alle stelle, mentre chi dovrebbe rispondere alle istanze della gente si occupa di questioni irrilevanti (tipo se la Padania esiste o no, se sia bello o meno che i giornali pubblichino delle intercettazioni telefoniche, se quando cadrà il governo bisogna subito andare alle elezioni oppure tentare un governo di coalizione, se mettere prima in agenda parlamentare il processo lungo o la prescrizione breve). Anzi è talmente irritante quello che viene proposto in tv, anche dai giornalisti che normalmente apprezzo, che mi da fastidio persino commentare le notizie in questo periodo e mia moglie si accorge di quanto rimanga insolitamente silenzioso durante i tigì. È difficile essere di buon umore quando vedi attorno a te le persone che perdono il lavoro e un governo buono solo a rimandare i problemi non darsene pensiero. L’Italia ha imboccato una strada senza uscita e pochi hanno il buon gusto di rivelarlo. Se poi non si fa nulla per tentare di modificare gli eventi, se si chiudono gli occhi davanti all’evidenza, le risposte della popolazione esasperata non potranno che peggiorare. E non sarà certo riproponendo la Legge Reale con pene inasprite o vietando le manifestazioni e i cortei per un mese che si calmeranno le acque. Non vorrei mai vedere il giorno in cui persino noi impiegati saremo costretti a scendere in piazza perché ci hanno abbassato gli stipendi o addirittura ci hanno licenziato in massa. Se mi dovessero sfidare ad abbandonare le pantofole e a propormi in prima persona … non ci voglio nemmeno pensare: non sanno cosa rischiano!

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