domenica 10 luglio 2011

IL MONDO DI ALBERTO


Diario di viaggio 2 – I castelli dei re di Baviera

L’arrivo in un posto nuovo, specie se ben agghindato per ricevere i turisti, è sempre lo stesso: ti guardi intorno con occhi sgranati e accumuli più immagini possibili. Tutto ti fa meraviglia, perché non è il paesaggio a te familiare, perché sei come perso in un mondo diverso e anche le nuvole non sono le stesse. Gli altri, chi c’è già da qualche giorno o solo da un paio d’ore, ti vedono passare con la sufficienza di chi pensa “eh, io si che la so lunga su dove porta quella strada che tu, povero pivello, stai percorrendo con aria trasognata”. Poi, quando il posto è piccolo come il centro della cittadina di Fűssen, fai presto ad esaurire la strada pedonale principale e le sue traverse e in men che non si dica, eccoti tornare sui tuoi passi e cominciare a osservare con distacco alle cinque-seicentesche facciate affrescate e ai loro arditi tetti spioventi. Il tuo sguardo comincia ad abbassarsi per apprezzare anche i negozi di souvenir, di abbigliamento, bar, ristoranti e pasticcerie. Sulla strada del ritorno verso l’albergo, riconosci chi è appena arrivato dallo sguardo perso per aria e un sorriso ebete di stupore stampato in viso, mentre tu puoi già sfoggiare l’aria volpina di chi la sa lunga…

All’indomani del giorno di arrivo, di buon’ora, io e mia moglie ci siamo catapultati a visitare la maggiore attrazione locale: i due romantici castelli dagli impronunciabili nomi di Neuschwanstein e Hohenschwangau, voluti dai re di Baviera, padre e figlio. Lo abbiamo fatto da bravi villeggianti, seguendo le indicazioni consigliate dall’ufficio del turismo, con il servizio navetta in partenza dalla piccola stazione, biglietto A/R. Per poi scoprire che ci si metteva si e no 5 minuti per raggiungere il grande parcheggio attrezzato alle pendici dei poggi alberati sulla sommità dei quali svettano i due manieri. E dico “attrezzato” non a caso, i bravi bavaresi (ma nella zona sottolineano di trovarsi nell’Allgäu, che credo si traduca come Algovia in italiano – una precisazione ancora una volta priva di conseguenze sul proseguo del racconto, ma che fa intuire al lettore più pignolo l’aria di campanilismo che si respira e serve a rassicurare il turista distratto di non aver sbagliato aeroporto di arrivo quando al posto di “Bayern” vede inneggiare ovunque all’Allgäu), o bravi algoviani che siano, sfruttano al massimo le possibilità turistiche che offrono i due fantastici castelli, attirando frotte di gente da tutto il mondo. In particolare la quantità di giapponesi (o sono ormai cinesi? No, a giudicare dal numero e dall’uso delle fotocamere dovrebbero essere i primi, a meno che anche gli altri non siano colpiti dalla stessa fotomania), organizzati per gruppo e per pullman (con i loro ombrellini, cappellini e coroncine da principessa), è andata crescendo nel corso della mattinata. Ma quando per ogni patio interno, ogni fontana e ogni strada non è più stato possibile passare senza avere atteso educatamente lo scatto di decine di foto ricordo altrui, abbiamo capito che era il momento di andare via rapidi. Ci siamo così infilati per un sentiero che scendeva attraverso il bosco, accuratamente segnalato da tedesche indicazioni, e abbiamo potuto godere della tranquillità e del silenzio della natura, arrivando a scorgere un paio di scoiattoli, diversi uccelli, e soffermandoci infine a raccogliere alcune asprigne fragoline di bosco.

La rivelazione però c’è stata il terzo giorno, quando s’è deciso di affittare le biciclette. Una località nuova si è aperta ai nostri occhi, fatta di verdi colline, laghi silenti, gentilissimi anziani signori che ci salutavano al passaggio. Non siamo riusciti a non confrontare ciò che vediamo a casa con la qualità della vita di questo angolo di Europa. E non sto parlando di bellezze naturali o storiche o di clima, là possiamo competere con chiunque. Alludo al modo di affrontare il quotidiano, a come influiamo su ciò che ci circonda, a quello che lasciamo ai nostri figli. Laddove nei nostri paesi (di Sicilia e del sud Italia), anche i più piccoli, abbiamo preso l’abitudine di passeggiare nel corso principale con l’automobile (finestrino abbassato, braccio peloso con finto rolex di fuori, musica napoletana a tutto volume), gli indigeni dell’Allgau percorrono allegramente ampie zone pedonali (vietate anche ai ciclisti); se da noi la gita fuori porta si fa in auto (nonna, pasta al forno e tenda da campo stipati nel bagaglio), laggiù tutti vanno in bicicletta, bambini di ogni età compresi (anche quelli da passeggino, con una speciale carrozzella che si lega dietro la

bici del genitore); mentre da noi c’è chi sostiene che i pannelli fotovoltaici sono antiestetici e al massimo vengono istallati nelle campagne (rubando terreno agricolo, ma soprattutto rubando i contributi), in Germania vengono mostrati con orgoglio su tutti i tetti delle case e dei capanni (e lì non ci sono ritrovano certo con i nostri 300 giorni di sole l’anno); se da noi ci sono in media 2 automobili e una bicicletta per famiglia e il traffico per le strade è congestionato (gestacci, insulti e stress garantiti), lì la media è una automobile e 6 biciclette di ogni tipo e in città la mattina si può andare a scuola o al lavoro, a piedi o in bici o con i roller senza paura di essere messi sotto ad ogni angolo. Tanti altri aspetti del loro sistema funzionano meglio, ma il terzo giorno nella tranquillità dei chilometri in bicicletta ci hanno fatto apprezzare soprattutto questo.

In bicicletta ci siamo sentiti anche noi quasi degli indigeni di Schwangau o di Fussen, apprezzandone gli aspetti paesaggistici e bucolici e cominciando a provare persino un po’ di fastidio per i meravigliosi castelli che richiamano orde di chiassosi gitanti foto-e-fuggi.

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